Disinformazione verso scienza: il caso della Xylella nel Salento
Daniele Rielli, scrittore e giornalista, ha pubblicato “Il fuoco invisibile” per Rizzoli sull’epidemia della Xylella nel Salento. Un tema che conosce bene e che ha affrontato diffusamente in articoli e reportage nel corso di questi anni. AgriScienza lo ha intervistato
Rielli, che cosa ci racconta il caso della Xylella sul modo con cui ci approcciamo alla scienza?
“Ci racconta che le storie possono essere più forti dei dati di fatto. In questa vicenda di storie se ne sono sentite, per anni, tantissime; c’era chi sarebbe andato in giro ad avvelenare le piante in tuta bianca, poi è stato il turno degli aerei spargi-veleno, dunque è arrivato quello della Monsanto intenzionata a piantare alberi transgenici… che però non esistevano. Erano storie, non erano vere, ma narrativamente parlando erano affascinanti. Verso la fine del libro parlo del valore delle storie applicate a questa vicenda. Il nostro cervello funziona per narrazioni. Spesso le verità scientifiche sono relativamente banali e non così appassionanti e interessanti come le contro-teorie, che hanno dalla loro il vantaggio di individuare un cattivo archetipale, in questo una multinazionale, e opporlo a un personaggio principale – l’eroe buono – che in questo caso era il popolo salentino, un popolo autoctono pronto a difendere i suoi alberi sacri. A livello di plot è la stessa trama di ‘Avatar’ e non a caso ha funzionato molto”.
E le cose stanno così?
“No, nel libro decostruisco questa narrazione. Gli ulivi in larga parte erano già stati abbandonati e l’economia dell’ulivo era molto legata ai sussidi europei. Gli ulivi in Salento erano usati in origine per fare l’olio lampante, cioè per le lampade, e non si prestavano bene a fare l’olio extra vergine. Non perché le olive non fossero buone, ma perché le piante erano grandi e vecchie e la raccolta dall’albero, necessaria alla produzione di olio alimentare, era molto complicata. La situazione era dunque questa: abbandono ed economia sussidiata. Questo, insieme alle storie che venivano raccontate sulla Xyella, non ha aiutato. Non c’era dunque un tessuto produttivo forte, con un interesse a mantenere viva la produzione, ma c’erano un sacco di persone che prendevano i contributi, peraltro non legati alle piante – che potevano morire o vivere e niente cambiava – ma agli ettari di terreno. Insomma, nel caso della Xylella sono tanti i livelli che ci permettono di capire perché non si è dato credito alla scienza. Alcuni sono filosofici, e culturali, altri strutturali, sociologici ed economici”.
La politica ha un ruolo nella vicenda?
“La politica ha avuto un ruolo fondamentale, nel senso che per anni il contenimento o non si è fatto proprio, soprattutto all’inizio, o si è fatto con molta timidezza e decisioni insufficienti. Anche adesso che la situazione è molto migliorata, comunque, il contenimento che viene fatto nelle zone di Bari è probabilmente insufficiente. Gli alberi vengono tagliati a 50 metri, quando sappiamo che la Sputacchina, l’insetto che trasmette il batterio, si sposta di almeno 400. Il risultato è che ancora oggi, a distanza di dieci anni, l’infezione continua ad avanzare. La responsabilità della politica è evidente; d’altra parte, però bisogna ammettere che all’inizio di questa vicenda, di fronte alla popolazione o alla opinione pubblica al 98 per cento convinta che l’epidemia non fosse reale e che fosse tutto un grande complotto, sarebbe stato difficile trovare un politico che si suicidasse e dicesse ‘beh, adesso tagliamo gli alberi’. Infatti, non ce n’è stato neanche uno. Michele Emiliano ha vinto le elezioni cavalcando apertamente le ragioni dei negazionisti; si è fatto intervistare da una giornalista apertamente negazionista e ha frequentato i negazionisti in campagna elettorale. Nemmeno dall’altra parte però c’era qualcuno che sostenesse le ragioni della scienza”.
Ma perché sono state inventate storie sulla Xylella?
“Penso che abbia a che fare anche con un sentimento di esclusione e di marginalità che in Salento è molto forte. Anche per ragioni storiche e geografiche. Il Salento è fondamentalmente una penisola, per tre lati è circondato dal mare, e questo non aiuta a sviluppare una cultura aperta a ciò che viene da fuori. C’è sospetto nei confronti dello straniero che, se rimaniamo nel contesto della Puglia, sono i baresi. Sicuramente non ha aiutato che il centro decisionale dell’epidemia fosse a Bari, sia dal punto di vista della ricerca, sia dal punto di vista istituzionale. Questo ha causato grosse ostilità sul territorio. D’altronde, questo è il paese dei campanili. Alcuni movimenti come i No Tap sono stati contigui poi ai negazionisti della Xylella. Sono minoranze relativamente cospicue ma molto agguerrite, che hanno avuto potere sul territorio perché sono costituite da professionisti della protesta. La nuova teoria di oggi è che due cultivar che resistono alla Xyella, e che vengono ripiantate, consumino troppa acqua. È una sciocchezza sesquipedale. Consumano esattamente l’acqua che consumavano le altre cultivar d’ulivo. Insomma, ce n’è sempre una nuova. Nel libro racconto le ragioni storiche di questa sindrome dell’accerchiamento. L’industria dell’olio si è sviluppata nel 1700 in Salento sul modello coloniale. Questo imprinting è rimasto in una parte della popolazione: l’idea di essere sempre dalla parte depredata e sconfitta, l’idea che ci sia sempre un complotto ai danni della gente. In parte è stato storicamente così. Sono epoche lontane che qualcuno ancora si porta dietro anche quando le cose stanno diversamente”.
I social hanno avuto un ruolo?
“Un ruolo fondamentale. Intendiamoci, questo tipo di reazioni di fronte alle epidemie attraversa la storia, non è certo la prima volta che avviene. I social però hanno avuto un ruolo fondamentale nello scardinare le strutture delle democrazie più o meno avanzate, come dovrebbe essere quella italiana, che sono preposte al controllo di emergenze come questa. Viviamo in una società organizzata, e questo dovrebbe prevenire che si scatenino meccanismi tribali. Invece sembra esserci questa idea che chiunque possa parlare di scienza. Nessuno accetterebbe un dibattito fra un tizio al bar e Cristiano Ronaldo sulla tattica nel calcio. Se venisse fatta un’intervista pubblica del genere sarebbe surreale. Però che chiunque può esprimersi su questioni scientifiche è un dato comunemente accettato. Lo trovo un fatto rilevante e interessante”.
È un paese, l’Italia, con un sentimento fortemente antiscientifico?
“Sicuramente c’è una grossa ostilità nei confronti degli scienziati, la loro figura pubblica non è rispettata. L’Italia ha ancora oggi il mito dello strapaesano con un grosso retaggio cattolico e un forte residuo di pensiero magico. Pensiamo, solo, per fare un esempio, che un intellettuale di riferimento è ancora oggi Pier Paolo Pasolini, un pensatore fondamentalmente antiprogressista. Il paradosso è che ciononostante abbiamo sempre avuto dei grandissimi scienziati e viviamo molto meglio di prima proprio grazie ai frutti della scienza non tematizziamo però mai questo progresso. In altri Paesi europei gli scienziati sono visti con maggiore rispetto, c’è un riconoscimento del loro ruolo fondamentale, del lavoro grazie al quale possiamo permetterci il nostro tenore di vita. Però di tutto questo non si parla, non se ne discute, sembra che la ricchezza sia arrivata come per magia e che tutto sia ‘naturale’ oppure dovuto conquiste politiche, quando in realtà è dovuta in massima parte ai risultati conseguiti dalla scienza.
Che idea si era fatto all’inizio, quando ha iniziato a lavorare sulla Xylella?
“All’inizio si sentivano, a livello nazionale, solamente teorie complottiste. In parte erano le stesse che aveva esplorato la Procura di Lecce. Quindi quando mi sono approcciato al tema seguivo la narrazione dominante per non dire l’unica. Però, una volta arrivato a Lecce, ci ho messo un attimo a capire che le cose non stavano come venivano raccontate. Cito qui solo un documento fondamentale, il risk assessment, la valutazione del rischio, prodotto dall’Efsa, che è l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, liberamente scaricabile online. Duecentocinquanta pagine, con una bibliografia molto estesa. Sistematizzava tutti i principali studi sulla Xylella esistenti al mondo per permettere di capire come agire in una situazione del genere. Era già tutto lì, nero su bianco, bastava leggerlo. Non c’era nessun mistero. La mia sensazione fu che in pochi, anche tra i giornalisti, lo avessero letto, nonostante gli scienziati lo citassero continuamente. Forse perché era in inglese”.