Domesticazioni delle piante selvatiche nell’era genomica
Il processo di domesticazione delle piante selvatiche e, quindi, il numero di specie vegetali coltivate su larga scala potrebbe subire in pochi anni un’importante accelerazione grazie alle nuove tecnologie come l’editing genetico
Le specie vegetali coltivate su larga scala nel mondo sono circa 150 ma questo numero potrebbe aumentare, anche notevolmente. Infatti si stima che le piante che sono state pienamente domesticate nel corso di dodicimila anni siano 250, mentre ne esistono settemila semi-domesticate e le edibili sarebbero addirittura cinquantamila. La sfida appare enorme e lo è, ma per le futuribili domesticazioni dell’era genomica potrebbero non essere necessari secoli e millenni, come accadeva agli albori dell’agricoltura. Il processo potrebbe avvenire a ritmo accelerato, nel giro di pochi anni, sfruttando le conoscenze accumulate sui tratti utili per la coltivazione e le nuove tecnologie come l’editing genetico.
Le piante coltivate hanno performance agronomiche ottimizzate grazie alla domesticazione e al breeding. Le selvatiche no, perciò i raccolti che offrono sono scarsi e faticosi da recuperare. Ma le seconde possono custodire tratti che vale la pena reintrodurre nelle prime, come la resistenza alle malattie o agli stress ambientali. “L’approccio classico consiste nel trasferire alle specie coltivate i tratti selvatici utili. L’alternativa è rendere coltivabili le piante selvatiche di interesse, trasferendo caratteristiche genetiche chiave per la resa”, ci spiega Silvio Salvi dell’Università di Bologna.
La prova di principio che l’alternativa funziona, e in alcuni casi potrebbe rappresentare la strada più semplice, è arrivata nel 2018, con due lavori pubblicati su Nature Biotechnology. Entrambi i gruppi hanno dimostrato che è possibile domesticare “de novo” e in modo “fast forward” il parente selvatico del pomodoro (Solanum pimpinellifolium) ricorrendo all’editing (Domestication of wild tomato is accelerated by genome editing e De novo domestication of wild tomato using genome editing). Sempre nello stesso anno è stata dimostrata su Nature Plants la domesticazione dell’alchechengi (Physalis pruinosa), una pianta del centro e sud America difficile da coltivare ma apprezzata per le sue deliziose bacche arancioni. In seguito a questi risultati è partito uno sforzo internazionale per ri-domesticare i parenti selvatici di alcune delle colture più importanti per l’alimentazione globale, a cominciare dal riso. Un gruppo cinese, in particolare, ha annunciato su Cell di aver introdotto nella specie Oryza alta sei tratti agronomicamente rilevanti – dalla ridotta dispersione dei semi alla forma della pannocchia – grazie all’aiuto di CRISPR.
“Sviluppare nuove piante adatte alla coltivazione è interessante dal punto di vista scientifico, ma è soltanto l’inizio”, commenta Salvi. Non è detto che gli exploit di laboratorio diventino successi commerciali: sta ai produttori decidere se coltivare nuove piante e ai consumatori decidere se metterle in tavola. Oggi, ad esempio, consumiamo un’enorme quantità di patate, che trecento anni fa erano guardate ancora con sospetto da molti agricoltori europei. I kiwi, d’altra parte, hanno iniziato a essere commercializzati in Nuova Zelanda intorno al 1930 e in meno di un secolo hanno conquistato il mondo. Probabilmente la fortuna della nuova strategia dipenderà soprattutto dalla scelta più o meno azzeccata delle piante selvatiche o semi-domesticate su cui lavorare. “La domesticazione di piante perenni imparentate con specie annuali di largo consumo potrebbe avere un impatto molto positivo dal punto di vista ambientale”, commenta Salvi. Se invece di seminare ogni anno lo si potesse fare ogni cinque o sei, per le industrie sementiere non sarebbe un affare ma si ridurrebbe l’erosione del suolo. “Servirebbe un grande progetto, anche nazionale”, nota Salvi. In pratica invece di cercare di rendere perenni i cereali annuali che coltiviamo da migliaia di anni, si tratterebbe di rendere coltivabili i progenitori selvatici che sono già perenni, come il teosinte per il mais.
In Italia, in particolare, esiste un frumento selvatico (Dasypyrum villosum) che cresce ai margini dei campi e occasionalmente si incrocia con il frumento duro. “Ha semi minuscoli, alletta e ha le spighe fragili, ma potrebbe diventare coltivabile intervenendo geneticamente sulla taglia della pianta e del seme”, ci dice Salvi sottolineando che potrebbe portare in dote dei geni per la resistenza alle malattie, ma che per ora la sua è soltanto un’idea. Tra le piante selvatiche addomesticabili, inoltre, potrebbe nascondersi qualcosa di simile a una nuova rucola, un tipo di insalata che nel giro di pochi anni ha sedotto palati e mercato. Per ora il genetista bolognese lavora a rendere coltivabile il grespino (Sonchus oleraceus) un lattughino spontaneo già usato per le misticanze nel sud Italia e in altre aree del Mediterraneo. Per trasformarlo in una “crop” vera e propria bisognerà uniformare la germinabilità dei semi e controllare la fioritura, che sottrae sostanze nutritive alle foglie rendendo la lattuga meno appetibile. Il programma europeo in cui si inserisce questo progetto, però, non prevede il ricorso all’editing, quindi si dovrà procedere più lentamente, a forza di incroci.
Il gruppo di Salvi lavora da un decennio anche su una pianta da biomassa (Arundo donax). Questa canna comune si distingue per la sua capacità di accumulare carbonio e, una volta domesticata (per esempio negli aspetti che riguardano la moltiplicazione delle piante), potrebbe essere coltivata su terreni marginali per fornire biomassa per usi energetici. Esiste un precedente di questo tipo: il miscanto. Questa specie è già stata resa coltivabile da un consorzio pubblico-privato britannico, in un’ottica di economia circolare, ma non ha ancora pienamente soddisfatto le aspettative commerciali.