L’alimentazione del futuro

I pomodori arricchiti di provitamina D3, sviluppati grazie alla collaborazione tra il CNR e il John Innes Center di Norwich, rappresentano una delle prime e promettenti applicazioni nel campo del miglioramento nutrizionale delle piante grazie all’editing genomico

Il miglioramento nutrizionale delle piante è uno dei filoni di ricerca che stanno ricevendo nuovo impulso grazie all’editing genomico. Prendiamo la vitamina D3. Le persone che soffrono della sua carenza nel mondo sono circa un miliardo. Le piante non la contengono naturalmente, ma alcune di esse (solanaceae) sono in grado produrre il suo precursore (colesterolo) all’interno di una via biosintetica che porta alla sintesi di alcuni metaboliti secondari (glicoalcaloidi). Fortuna vuole che possano essere indotte ad accumulare la provitamina D3 spegnendo il gene responsabile di questa reazione. Per ottenere questo risultato è sufficiente un intervento genetico puntiforme, del tutto simile a una mutazione spontanea. Lo ha dimostrato un lavoro pubblicato nel 2022 su Nature Plants[1] da ricercatori dell’Istituto di Scienze delle produzioni alimentari del CNR di Lecce e del John Innes Center di Norwich.

Lo studio ha attirato l’attenzione dei media internazionali perché i pomodori arricchiti di provitamina D3 sviluppati dalla collaborazione italo-inglese rappresentano l’avanguardia di una promettente tipologia di prodotti. Alimenti modificati per rispondere a esigenze di salute reali, nell’ottica di un’alimentazione che in futuro tenderà a essere sempre più personalizzata.

Il risultato dell’editing e dei successivi incroci è che il pomodoro biofortificato ha poche basi di differenza rispetto alle piante madri e non contiene DNA estraneo”, ci dice Angelo Santino. “Secondo i primi calcoli un paio di pomodori al giorno dovrebbero essere sufficienti a soddisfare il fabbisogno di una persona”, aggiunge il ricercatore del CNR. Insomma, questi pomodori hanno buone speranze di non essere penalizzati dal punto di vista regolatorio in un numero crescente di paesi e di incontrare il favore dei consumatori.

L’organismo umano non può fare a meno di questa vitamina importante per la regolazione del calcio, e dunque per la crescita e la salute delle ossa. Rachitismo e osteoporosi, oltretutto, non solo l’unico rischio da considerare[2]: anche cancro, Parkinson, demenza e altre malattie possono essere associati alla deficienza di vitamina D3. Per procurarsela, visto che i vegetali ne sono privi, è necessario consumare alimenti di origine animale – come pesce, uova e fegato – e poi fare affidamento sull’aiuto del sole per convertire il precursore nella forma attiva. Alcuni funghi sono in grado di produrre provitamina D2, che però è meno stabile ed efficace. In definitiva, ad avere bisogno di integratori mirati sarebbero in tanti: i vegani, chi vive a latitudini poco soleggiate, chi ha una pelle abbastanza scura da schermare i raggi UV, gli anziani. Nel nostro continente però siamo in pochi a preoccuparcene, infatti si stima che ben il 40% degli europei sia carente (negli USA la percentuale si dimezza).

Lo stratagemma usato dai ricercatori è stato inattivare con un semplice taglio mirato (knock-out) il gene che codifica per l’enzima bersaglio (Sl7-DR2). Poiché la via metabolica per la sintesi dei glicoalcaloidi non è indispensabile per la crescita del pomodoro, le linee mutanti hanno mostrato una riduzione di questi metaboliti secondari e non hanno risentito della modifica, secondo i primi risultati della prima prova in campo che si è svolta in Gran Bretagna. In compenso la provitamina D3 si è accumulata nei frutti e ancor più nelle foglie, e i test di laboratorio hanno dimostrato che una percentuale importante (circa il 30%) viene convertita dalla luce ultravioletta nella forma attiva. “Coltivando queste piante nel sud Italia, dove l’irraggiamento è molto più forte che in Gran Bretagna, e magari seccando i frutti al sole, il livello potrebbe aumentare ancora”, sostiene Santino. Le foglie, inoltre, potrebbero essere usate per produrre integratori, che oggi si basano su una sostanza escreta dalle pecore e purificata dalla lana (lanolina).

Per dimostrare gli effetti salutistici degli alimenti fortificati servono studi mirati a partire da quelli condotti su modelli animali. Ma CNR e John Innes Center hanno maturato esperienza anche in questo campo, collaborando alla produzione di linee di pomodoro arricchite in polifenoli utilizzando un approccio di ingegneria genetica classica (trangenesi) nella speranza di prevenire le patologie infiammatorie dell’intestino[3]. Il miglioramento nutrizionale, in questi casi, ha riguardato diverse classi di polifenoli e ha richiesto l’inserimento di geni esogeni (sia regolatori che strutturali) originari di altre piante. “Normalmente il pomodoro produce pochi flavonoli e soltanto nella buccia, mentre non accumula né antociani né stilbeni”, spiega Santino. Dagli esperimenti con i topi, alimentati con pomodori identici in tutto tranne che per i biocomposti desiderati, è emerso che, utilizzando nella dieta una linea arricchita con diverse classi di polifenoli (flavonoli, stilbeni, antociani) è stato possibile ridurre lo sviluppo dell’infiammazione intestinale ed avere risultati positivi sul microbiota intestinale[4].

Perché sono stati scelti proprio i pomodori? “Questa pianta offre molti vantaggi: è una delle più coltivate al mondo, cresce bene in serra e i suoi frutti possono essere consumati crudi, senza danneggiare i biocomposti termolabili”, risponde il ricercatore del CNR. In genere si usa una cultivar chiamata moneymaker, ma gli stessi approcci possono essere applicati a varietà locali e anche ad altre specie come il peperone, a patto di mettere a punto protocolli efficienti di trasformazione e rigenerazione.

Allargando lo sguardo alla sicurezza nutrizionale nel suo complesso, occorre tenere conto che i consumatori presentano carenze alimentari diverse, in termini di vitamine, metaboliti secondari e altri micronutrienti, che variano a seconda di età, genere, patologie, stili di vita. “In un futuro che non è ancora a portata di mano, la speranza è di poter indicare a ciascuno gli alimenti più adatti. Ad esempio, a chi soffre del morbo di Crohn o di colite ulcerosa, ma anche di patologie cardiovascolari oppure neurovegetative”. Per avvicinarci a questo traguardo, probabilmente, serviranno diversi approcci di ingegneria metabolica, e anche lo sviluppo di screening rapidi, in grado di verificare prodotto per prodotto le reali potenzialità per la prevenzione delle malattie umane.

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