Le malerbe e la salvaguardia della biodiversità
La proliferazione delle malerbe causa danni ingenti alla biodiversità e la loro gestione rappresenta un problema quanto mai attuale
di Sergio Saia
Le malerbe, le infestanti, la flora nativa: nomi diversi, ma in tutti i casi danni ingenti a fronte di ben poca biodiversità. Ma cosa sono esattamente le malerbe? E quale è la chiave per combatterle?
Le colture sono sistemi ecologici fortemente semplificati rispetto alle formazioni naturali. In natura insistono molte specie (vegetali, animali, batteriche e fungine) diverse nello stesso ambiente, spesso in intima relazione reciproca. Tali specie occupano diverse “nicchie ecologiche”, ossia si sono specializzate in alcune funzioni che consentono loro di meglio competere per le risorse rispetto alle altre specie. In estrema sintesi: in natura ogni specie tende sempre a operare a proprio vantaggio e ciò accade anche nelle condizioni di simbiosi mutualistiche.
In un ambiente coltivato c’è spesso una specie vegetale preponderante (appunto quella coltivata) e altre specie vegetali non coltivate che, in virtù delle loro caratteristiche, tendono a insediarsi negli stessi spazi occupati da quella coltivata, scalzandola o deprimendone la crescita e, per i fini antropici, la produzione e qualità. Tali specie vengono chiamate, storicamente, con il termine “malerbe”, la cui etimologia non richiede spiegazioni. Tale termine è stato sostituito, almeno in parte, dal termine “specie vegetali infestanti”, che indica la loro funzione in relazione alle specie coltivate.
Recentemente, movimenti relativamente naïf hanno preferito usare il termine “flora nativa”, volendo indicare che queste specie infestanti siano quelle tipiche dell’ambiente in cui crescono. Il termine, se usato con questa accezione, è erroneo o quantomeno parziale.
Flora infestante: non solo nativa
Indubbiamente la flora nativa ha normalmente una maggiore capacità rispetto alla flora coltivata di insediarsi in un ambiente. La flora coltivata è spesso composta da individui geneticamente simili o identici e ingentiliti, ossia selezionati in maniera tale da propendere per la produzione della frazione di nostro interesse invece della propria capacità di sopravvivenza (la quale, spesso, va a discapito della produzione).
Purtroppo non sempre le infestanti nei campi coltivati sono flora nativa, bensì flora involontariamente apportata dall’uomo e i casi di infestanti invasive sono purtroppo molti e documentati, come per esempio la ricerca pubblicata su Ecological Indicators dal titolo “Invasive weed species’ threats to global biodiversity: Future scenarios of changes in the number of invasive species in a changing climate”. Ovvero, la minaccia per la biodiversità globale portata dalle specie invasive spontanee.
Qualora le infestanti siano composte da sola flora nativa, sembrerebbe intuitivo pensare che la loro presenza comporti un aumento della biodiversità dei sistemi, essendo esse appunto diversificate (e molto!) rispetto alla specie coltivata. A scala di appezzamento è indubbiamente vero, ma a scala territoriale purtroppo no.
Il danno che le infestanti comportano su scala globale è notevole. A livello mondiale, già nel 2006 sono state stimate perdite di produzioni agricole pari a un terzo della produzione potenziale, con stime in anni precedenti variabili dal 20% al 50%. Un terzo di perdita della produzione potenziale indica che la produzione reale è il 66% della potenziale o che, in ultima analisi, se non ci fossero le infestanti, i campi coltivati produrrebbero in media il 50% in più, ossia [(100/66) -100] * 100= +50% circa.
Più biodiversità in campo, meno rese
Ovviamente, all’interno del campo in cui le infestanti crescono, la biodiversità complessiva aumenterebbe sia grazie alla loro presenza, sia grazie alla presenza dei funghi, batteri e animali a esse associate. Tuttavia, ciò avverrebbe a fronte di un aumento del 50% della superficie coltivata o, detta in altri termini, della riduzione corrispondente del 34% della superficie ad altri usi e soprattutto di quelli naturali.
La domanda che ci si pone è dunque: di quanto aumenta la biodiversità all’interno del campo coltivato a seguito del mantenimento delle infestanti e a quanto ammonta la biodiversità persa per via del fatto che viene coltivata più superficie del necessario?
Biodiversità: locale vs globale
Purtroppo, il bilancio di queste due quote è tutt’altro che roseo. L’aumento di biodiversità all’interno del campo coltivato è risibile rispetto alla perdita di biodiversità dovuta ai nuovi campi coltivati e ciò è dovuto al fatto che la presenza di alcune specie chiave negli ecosistemi è direttamente vincolata alla superficie indisturbata a loro disposizione.
Ciò implica che quanto più terreno coltiviamo e soprattutto quanto meno spazi di vaste dimensioni lasciamo agli ambienti naturali, tanto meno specie delle porzioni apicali della rete alimentare potemmo far nascere, crescere e riprodurre.
Ovviamente, le minacce alla biodiversità sono molteplici e tra queste troviamo, in primis, la perdita di habitat e la presenza di specie invasive, per quanto, ovviamente, non possono essere trascurati l’inquinamento, la crescita della popolazione umana e il sovrautilizzo delle risorse. Quali metodi è quindi possibile, necessario e auspicabile utilizzare per contenere lo sviluppo delle malerbe?
Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi
Dare una risposta univoca e valida per tutti i contesti è impossibile. I metodi che, direttamente o indirettamente, intervengono sulle malerbe sono diversi.
Una famiglia di metodi abbastanza famosa è ovviamente l’utilizzo di fitofarmaci con finalità erbicida, che contengono principi attivi (quasi sempre di sintesi, detti p.a.s.) in grado di determinare un rallentamento dello sviluppo o addirittura la morte di singole malerbe o di uno solo o diversi gruppi tassonomici delle stesse. Una caratteristica dei p.a.s. è quindi quella di rappresentare una soluzione mirata, ovvero contenere le malerbe o addirittura una sola malerba, a un problema mirato, ossia il problema generato dalle malerbe. I p.a.s. con scopo erbicida non intervengono (almeno direttamente) sulla nutrizione della piante, sul contenimento dei patogeni o degli insetti infestanti, etc., ma solo sulla componente delle infestanti.
Tuttavia, i p.a.s. sono di recente introduzione (hanno meno di 100 anni), mentre le malerbe ci sono da sempre e da sempre sono temutissime per via della forte riduzione di resa che comportavano e, talvolta, anche per il danneggiamento della qualità dei raccolti e della loro salubrità. Per esempio, alcune malerbe erano e sono velenose, comportando quindi rischi per l’uomo o per gli animali da allevamento.
Purtroppo, prima dell’introduzione dei p.a.s., i metodi utilizzati avevano effetti blandi su determinati problemi, ma erano comunque effetti multipli. Tra questi metodi è possibile annoverare:
- la rotazione colturale, che comportando un cambio delle specie coltivate, comporta anche una diversa condizione di vita delle malerbe e quindi le forza a cambiare.
- Lo sfalcio continuo, che deprime la possibilità per le malerbe di andare a seme.
- L’aumento di densità di semina o di impianto della coltura, che aumenta l’abilità competitiva della coltura stessa, etc..
Tali metodi appena presentati non hanno, purtroppo, un’elevata efficienza, soprattutto se comparati all’uso dei fitofarmaci che riescono a contenere notevolmente la presenza delle malerbe.
Oltre ai summenzionati metodi, un ulteriore sistema di controllo delle infestanti, non fondato sull’utilizzo dei p.a.s., ha comunque una efficienza relativamente alta, sebbene non tanto quella degli erbicidi: si tratta delle lavorazioni del suolo.
Terreno lavorato o diserbato?
Le lavorazioni del suolo sono un complesso sistema di operazioni meccaniche volte ad alterare il profilo del suolo. Alcune di queste riescono proprio a stravolgere tale profilo, attraverso un meccanismo di rivoltamento della fetta di terreno che comporta, in ultima analisi, portare più in profondità il suolo superficiale e viceversa.
La profondità di lavorazione e la tipologia di lavorazione stessa possono essere scelti dall’agricoltori. Le motivazioni per cui le lavorazioni riescono a contenere lo sviluppo delle malerbe sono sostanzialmente due: danneggiano le malerbe vegetanti e portano in profondità i semi delle stesse, riducendone quindi la possibilità di emersione fuori dal terreno una volta germinate o favorendo la loro predazione.
Ovviamente, un metodo non esclude gli altri ed è anzi un bene che l’agricoltore diversifichi le strategie di contenimento degli stress, proprio perché l’efficienza di ciascuna di esse è variabile in funzione del target e, parimenti, ciascuna di esse ha anche effetti controproducenti da vari punti di vista. Un concetto del tutto analogo si ha con l’alimentazione, dove è fondamentale diversificarla senza pensare che un determinato alimento possa curare o, in condizioni di norma, danneggiare alcunché.
L’uso di principi attivi (di sintesi o meno), purtroppo, comporta l’immissione nell’ambiente di molecole o elementi che non esisterebbero in quell’ambiente o che esisterebbero in concentrazioni notevolmente più basse rispetto all’assenza di applicazione. Tali alterazioni della presenza e concentrazione possono comportare danni ad altri comparti ambientali, come agli organismi non target o alle acque di fiumi, laghi e mare. Ci si è quindi chiesto se un metodo relativamente molto efficiente, ossia la lavorazione del suolo, possa essere utilizzato in completa sostituzione dell’uso dei p.a.s. con fine erbicida.
Purtroppo, anche le lavorazioni hanno effetti controproducenti e tra questi vi è l’aumento (spropositato) della degradazione del suolo, soprattutto ad opera dell’erosione. Le lavorazioni comportano infatti, sempre, un aumento della velocità di degradazione della sostanza organica (spesso chiamata, sebbene erroneamente, “humus”) e una riduzione della velocità di sintesi della sua frazione stabile. Oltre ciò, tutti gli organismi relativamente grandi (es. i lombrichi) vengono distrutti istantaneamente nello strato interessato dalle lavorazioni. Di tali argomenti si occuperà il progetto europeo SHARInG-MeD.
Peraltro, le lavorazioni aumentano anche l’erosione. In media, un suolo non sottoposto a lavorazione perde dal 56 al 60% meno suolo di una controparte lavorata, con punte anche fino al 94%). Un tema, quello dell’erosione, trattato con attenzione anche dalla Fao.
In altri termini, la lavorazione aumenta l’erosione dal 100% al 1500%. Se qualcuno teme un errore di battitura, sappia che non ve n’è: è dal doppio (nella migliore delle ipotesi) a 16 volte tanto. Qualcuno potrebbe voler sottovalutare tali quantità. Purtroppo, però, il suolo eroso è anche il più fertile, più ricco in sostanza organica e spesso anche più in grado di trattenere l’acqua. Tale caratteristica è particolarmente importante in un’epoca di cambio climatico come quello in corso. Come se non bastasse, arrivando il terreno eroso in fiumi e laghi, questo diviene anche una principale causa del dissesto idrogeologico, del quale il nostro paese è alquanto afflitto.
L’erosione in cifre
La quantità di sedimento eroso in un anno da un ettaro di terreno (10.000 m2) che può essere considerata tollerabile, ossia che non compromette la capacità dello stesso di fornire servizi ecosistemici, ammonta a 2.2 t/ha/anno. Ciò stando alle stime della Fao. Non è però improbabile che si giunga oltre le 30 t/ha/anno. Per questa ragione, la lavorazione del suolo è vista – e non a torto – come una delle pratiche più impattanti in agricoltura, senza contare l’enorme dispendio energetico che richiede e, con esso, le emissioni dirette legate alla combustione del carburante e alla degradazione della sostanza organica.
Sostituire quindi l’uso delle lavorazioni ai fitofarmaci non è quindi una pratica che andrebbe seguita a cuor leggero, bensì considerando tutti i pro e i contro di ciascuna strategia e integrando le due (e tutte le altre) il più possibile.
Conclusioni
Per concludere, il controllo delle malerbe è un aspetto importantissimo della gestione agronomica e come tutto, non andrebbe affrontato con ideologia o con informazioni parziali sui pro e sui contro di ogni strategia, evitando di indicare una singola strategia come salvifica.
In particolare, come le lavorazioni possono avere un impatto variabile in funzione della tipologia, profondità, frequenza e condizioni operative, anche i principi attivi di sintesi hanno un impatto variabile in funzione della tipologia, modalità e quantità somministrate, frequenza, etc.
Alcuni principi attivi ad oggi utilizzati hanno profili di rischio ambientale bassissimi e consentono, in tal caso, anche di ridurre la frequenza delle lavorazioni, perfino di annullarla, con benefici ambientali, produttivi ed economici. Ovviamente, gli stessi sono controllati molto accuratamente dalla comunità europea, in particolar modo dall’Efsa, circa i loro potenziali effetti sulla salute dell’uomo e stante la legislazione ed esposizioni attuali, non si evince alcun problema legato all’assunzione degli stessi con la dieta.
Il controllo delle malerbe, in ogni caso, non può certo essere omesso. Regola agronomica, infatti, vuole che il controllo venga svolto nel momento in cui le malerbe diventino limitanti per la produzione o per il profitto, poiché un livello minimo di malerbe può anche essere tale da non compromettere la resa e possa addirittura apportare benefici.
Tale principio è indubbiamente vero, ma cozza, nella pratica, con i sistemi adottati per scegliere a quanto ammonti tale “livello minimo” e come gestirlo, al punto che spesso, purtroppo, gli agricoltori ritengono che il livello minimo di sicurezza sia la completa scomparsa delle malerbe stesse. Peraltro, quando queste non sono composte da sola flora nativa, la presenza di specie infestanti aliene comporta un ulteriore danno.