La zootecnia italiana marcia a grandi passi

Nonostante sia talvolta messa sott’accusa per questioni ambientali, la zootecnia del nostro Paese sta facendo grandi passi in avanti, sia sul piano squisitamente tecnico sia su quello della tutela ambientale. Precision Farming è la tecnica che la guida, mentre diventa obsoleto e sbagliato chiamare intensivi i nostri allevamenti che sono invece protetti, confinati e di precisione

L’interesse per la zootecnia, scienza degli animali domestici da reddito, non è rivolto solo all’allevamento del bestiame ma abbraccia anche la coltivazione dei terreni per il foraggio e la produzione alimentare, per la trasformazione delle materie prime ossia carne, latte, uova e pesce in prodotti per la tavola. La zootecnia è pertanto un grande contenitore di un immenso e straordinario agglomerato di settori produttivi. Immenso perché riguarda tutto il pianeta, acque comprese; straordinario perché la zootecnia è un insieme di ambiti produttivi più disparati, con preparazioni finali che vengono scelte per essere indirizzate a differenti palati.

Il nostro Paese ha la fortuna di possedere un discreto numero di aziende agricole con allevamento, dedicate alla produzione di latte, carne, uova, miele e pesce che poi indirizzano a migliaia di veri e propri “laboratori gastronomici” sparsi su un territorio, dalle Alpi alla Sicilia, dentro ai quali sono sperimentati e portati avanti modelli produttivi di celebri preparazioni che vanno in tutto il mondo come specialità della nostra passione gastronomica.

È, la nostra, l’eccellenza di un modello basato sulla capacità produttiva di lunghissima tradizione. Improntato alla biodiversità del nostro ecosistema, al rispetto dei soggetti allevati e alla produzione delle materie base, questo modello non perde mai di vista il rispetto di questo ecosistema, ultimamente ribadito anche dal documento del Summit Internazionale di Dublino, firmato da 524 esperti e studiosi, tra i quali anche alcuni del nostro Paese.

Numeri e contrasti della zootecnia

La nostra attività zootecnica non è certamente la più forte d’Europa e men che meno una delle più forti nel mondo. Se paragonata alle altre scopriamo trattasi di una nicchia produttiva con un numero limitato di aziende e di capi che però rappresentano un’economia a elevato valore qualitativo con prodotti di origine animale come formaggi o carni lavorate riconosciuti e ricercati in tutto il mondo.

Da più parti si continua però a definire intensivi i nostri allevamenti, con migliaia o decine di migliaia di capi allevati, con un’accezione di sdegno e ignorando l’attuale realtà. Le stalle di bovini o di suini italiane sono invece caratterizzate da ben precisi criteri costruttivi, ordinati per Legge, ma anche volontariamente predisposti dai loro proprietari, nel rispetto del benessere dei soggetti allevati e con vantaggiose soluzioni che favoriscono l’animale che produce di più e meglio.

Attualmente in poco più di 700.000 aziende agricole (Fig. 1), di cui una fetta dedicata all’allevamento, sono stabulati quasi 1 milione e mezzo di vacche da latte, 6 milioni e mezzo di suini e 500 milioni di polli, senza contare gli allevamenti ittici dei nostri mari. I nostri prodotti finali, come formaggi e i prodotti della trasformazione delle carni o delle uova, sono ormai conosciuti ovunque, i più copiati e sempre apprezzati al di fuori del nostro Paese.

Tabella di distribuzione delle imprese registrate per forma giuridica nei settori agricoltura, caccia e silvicoltura nel 2019

Fig. 1: Distribuzione delle imprese registrate per forma giuridica – settore agricoltura, caccia e silvicoltura – 2019

Paragonati ai 500 milioni di suini in Cina, o ai 70 milioni di vacche del nord America, il nostro allevamento è quasi lillipuziano. Solo in Arabia Saudita, ad esempio, un solo allevamento conta quasi 250.000 capi di bovini destinati alla produzione di latte e, sempre in questo Paese, con poche decine di allevamenti si raggiunge il nostro numero. Si pensi che questo vero e proprio “impero zootecnico saudita” ha impiantato nel deserto grandi irrigatori d’acqua marina desalinizzata che fanno produrre solo una piccola parte del loro fieno, mentre il resto arriva via nave dagli Stati Uniti, dove Salmān Bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd  ha comprato addirittura grandi estensioni californiane per la coltivazione del foraggio. Scelta analoga anche nel meridione dell’Europa, Italia in buona parte, che vende agli arabi una sensibile percentuale di erba medica ad alto quantitativo proteico per soddisfare quegli animali allevati nel deserto della penisola saudita.

Qual è però la differenza? Semplice: che i nostri sono prodotti d’eccellenza, con gusti e sapori dei più svariati e ottenuti in un’economia il più possibile “circolare”. Nel nostro Paese tutto avviene in poco spazio e l’agricoltura è un’intensa attività di cui la maggior parte viene condotta come agricoltura 4.0.

Per di più la tradizionalità di molte nostre produzioni è ancora largamente evidente e può essere toccata con mano dentro le stagionature dei nostri prodotti più rinomati. In una parola trattasi di una filiera dove si coniuga un patrimonio di tradizione agricola longeva che non ha mai smesso di fare passi avanti e che ultimamente ha adeguato la sua capacità di coltivare, allevare, produrre e trasformare con quella tecnica definita di ultima generazione e denominata “Precision Farming”.  

Il nostro modello del Precision Farming

Già da oggi l’agricoltura mondiale è chiamata a una grande sfida: aumentare e migliorare la propria produzione per soddisfare l’enorme richiesta di cibo per la popolazione in continua crescita, ossia 9,5 o 10 miliardi di persone da qui al 2050, di cui un miliardo da sfamare e alcune centinata di milioni, con buone capacità di spesa, da nutrire al meglio per preservare la loro salute e allungare la vita media.

È questa un’impresa titanica che riguarda anche noi italiani, possibile solo con l’impiego di nuove tecnologie che, sfruttando le attuali dimensioni del terreno coltivabile, dovrà dotarsi o si sta già dotando di nuove tecniche, molte delle quali allo studio o già in atto per incrementare le produzioni di latte, carne, uova o prodotti ittici, arricchendole anche di nutrienti più salutari.

Le stime della FAO e le proiezioni dell’ONU ci dicono che nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale, la produzione agricola dovrebbe più che raddoppiare entro il 2050 per soddisfare l’aumento della domanda, mentre nel resto del mondo l’aumento previsto sarebbe di circa un terzo superiore rispetto ai livelli attuali. Per questo motivo l’agricoltura di precisione è un prioritario strumento di risposta alle richieste dei prossimi 30 anni.

Di fronte a queste sfide, l’allevatore italiano non si tira indietro e in larga parte ha preso atto di dover affrontare una seconda rivoluzione verde, che fa seguito alla prima iniziata negli anni ’40 del secolo scorso. A quell’epoca lo scienziato Norman Borlaug, uno studioso di tecniche agricole nel nord America che ottenne il premio Nobel per la pace nel 1970, iniziò a progettare nuove tecniche di selezione arborea e di nutrizione animale in Occidente in grado di rispondere alla crescente richiesta di prodotti, futuro cibo per soddisfare la popolazione dello sviluppo socioeconomico post-bellico.

Da lì iniziò, ad esempio, l’era dei grandi ibridi di granaglie che da tempo utilizziamo nelle nostre campagne di semina, caratterizzate da alta produttivitàresistenza alle malattietaglia ridotta e precocità di spigatura, che producono già il doppio di quasi un secolo fa. Contemporaneamente la nostra zootecnia, sotto l’impulso di illustri scienziati agro-zootecnici del tempo, diede vita ad una strenua lotta sanitaria contro le grandi malattie del bestiame di allora. Fra queste spiccano afta epizootica, pesti suine, malattie batteriche del pollame, brucellosi e tubercolosi dei mammiferi da reddito, ma anche molte altre malattie che falcidiavano il bestiame di cent’anni fa.

Quest’operazione fece scuola anche in altri Paesi europei. Adesso, sconfitti quei malanni, è il momento della Precision Farming, una tecnica che coniuga l’ammodernamento zootecnico con la tutela dell’ambiente, collegato a sua volta al tentativo di combattere il cambiamento climatico che stiamo vivendo.

Ruolo ambientale e socioeconomico della nostra zootecnia

Secondo un rapporto UE del 2017, il valore delle sole produzioni animali e dei prodotti di origine animale dell’Unione Europea ammonta a 170 miliardi di euro, quasi la metà di tutto il settore agricolo dei 27 Paesi UE. Lo dice lo studio della Direzione C (Strategy, simplification and policy analysis) della Commissione Europea, che nella settantina di pagine prodotte da un panel di esperti indipendenti ha passato al setaccio l’intero settore agro-zootecnico.

Dentro questi numeri l’Italia, secondo i dati del CREA, mostra che l’agricoltura italiana anche nel 2020 è la prima e più performante d’Europa, con un valore aggiunto pari a 31,3 miliardi di euro, davanti a Francia (30,2 miliardi di euro) e Spagna (29,3 miliardi di euro), nonostante la superficie nazionale sia circa la metà di quella francese e spagnola. Leggermente diversa è invece la graduatoria del valore della produzione a prezzi correnti del nostro Paese che ci posiziona al terzo posto (56,1 miliardi di euro) dietro a Francia (75,4 miliardi di euro) Germania (56,3 miliardi di euro), seguita dalla Spagna (53 miliardi di euro).

Solo questi dati sono sufficienti a sottolineare l’importanza del nostro settore nel panorama europeo. L’agricoltura italiana, coi suoi 8,3 milioni di ettari coltivabili, alleva 1,5 milioni di vacche da latte, 6 milioni e mezzo di suini, 500 milioni di polli e centinaia di allevamenti ittici a cui s’aggiungono alcune centinaia di migliaia di altri animali da consumo, per lo più di consumo familiare o quasi. Nonostante i nostri numeri, per quanto ridotti rispetto al panorama europeo, nel biennio 2019-2020 l’agroalimentare si è dimostrato uno dei cardini dell’economia nazionale, affrontando la crisi Covid senza creare problemi di alimentazione in nessuna parte del Paese. E non abbiamo interrotto neppure le catene internazionali delle nostre derrate alimentari.

Nel frattempo, i nostri allevamenti di bestiame raccolgono circa il 50% della manodopera impiegata nell’intera agricoltura del Paese (Fig. 2), che corrisponde a circa 1 milione e mezzo di persone, a cui si dovrebbero sommare altri appartenenti al gruppo familiare che, senza essere pienamente impegnati, danno un sostegno e un aiuto alla conduzione dell’azienda.

Tabella valore agricoltura nel sistema economico italiano

Fig. 2: L’agricoltura nel sistema economico nazionale

A questo evidente valore socioeconomico si aggiungono altri aspetti non trascurabili delle attività umane in senso lato, quali il legame tra allevamenti, la cura del territorio e il mantenimento costante della biodiversità, perché senza la zootecnia intere aree del nostro Paese andrebbero abbandonate, specialmente quelle di montagna. Purtroppo, con l’abbandono di intere superfici destinate a pascolo permanente aumenterebbero i terreni agricoli lasciati incolti, creando ampi territori privi della presenza dell’uomo e delle sue attività, queste ultime genericamente indicate come attività “sentinella del territorio”.

Non si tratta certamente, per queste ultime, di operazioni d’allevamento strutturato, ma sono pur sempre attività importanti sotto l’aspetto antropologico e di presenza umana, il cui abbandono condurrebbe (anche) a perdite di paesaggio definito a “mosaico” o a “geometria variabile”, sostituite da quelle a “monotonia territoriale”.

La zootecnia invece contribuisce, soprattutto in questi ultimi casi citati, alla biodiversità dei suoli, ricchi di floricoltura variante da coltivazioni stagionali diverse, al mantenimento degli insetti che le popolano, all’ecosistema che le caratterizza e all’assetto idrogeologico di torrenti, canali e acque superficiali che ci proteggono.

Assetto attuale e futuro della nostra zootecnia

Ormai gli attuali allevamenti, definiti finora erroneamente “intensivi”, si devono invece chiamare “protetti o confinati” e meglio ancora “di precisione”, per l’attenta e precisa applicazione alle regole agronomiche attuali dell’economia, della salute animale (e umana) e dell’ambiente. Quest’ultima definizione deriva dal fatto che le aziende agricole moderne sono obbligatoriamente orientate a ben specifici criteri, come il benessere animale, l’utilizzo regolamentato dei medicinali e un indispensabile criterio di efficienza produttiva con la conseguente riduzione degli sprechi.

Ormai è entrata nell’ordinario la conduzione corretta della mandria, la rispettosa attenzione alle norme sanitarie, l’utilizzo normato e razionato dei medicamenti, da cui ne stanno traendo beneficio più elementari norme sulla tutela dell’ambiente, nel rispetto degli standard di meticolosi regolamenti europei e nazionali o a quelli dell’economia gestionale.

Tutto ciò fa parte indiretta e cospicua di un pacchetto di norme che vanno sotto il nome di Politica Agricola Comune (PAC) della Commissione EU. Quest’ultima, una vera e propria strada maestra, è diventata obbligatoria per tutti quegli allevatori che vogliono beneficiare di contributi indispensabili al bilancio “positivo” dell’impresa agricola, con terreni da coltivare in una certa maniera, bestiame da allevare secondo i criteri già citati e derrate alimentari accettate dal mercato. Tra la miriade di queste indicazioni PAC ne possiamo citare almeno una decina, molte già digitalizzate, che l’allevatore già mette quotidianamente in atto:

  1. L’utilizzo di adeguati sistemi di alimentazione, i più già computerizzati per la preparazione della dieta e robotizzati per la somministrazione del mangime o del foraggio. In alcuni casi la “razione giornaliera” per l’animale è studiata interattivamente con la fase di vita dell’animale, preparata con carri miscelatori informatizzati, messa a disposizione dell’animale che, stimolato dalla fame, schiaccia col muso un pulsante dentro l’attrezzatura robotizzata di mungitura e immediatamente dosata viene messa a disposizione dell’animale, soddisfacendo la sua esigenza di benessere fisico, senza sprecare inutilmente materia prima.
  2. La conduzione dell’allevamento (protetto, confinato e di precisione) fa risparmiare mediamente il 31% rispetto all’allevamento completamente libero, poiché v’è un risparmio di terreni utilizzati a parità di dieta e di produzione, in una struttura a elevato livello di biosicurezza sanitaria, senza contatto con animali selvatici e con pericoli dall’esterno, con un ridotto o nullo rischio di portarsi malattie in allevamento. Il tutto facendo vivere gli animali in salute, creando le condizioni per non diffondere microrganismi e patogeni nell’ambiente, producendo meno emissioni impattanti nell’ambiente e utilizzando una minor superficie di terreno, preservandolo con il minor impatto ambientale.
  3. La produzione di decine o centinaia di prodotti tradizionali di derivazione animale, senza alcun stravolgimento di processo o di risorse. Formaggi come il Parmigiano-reggiano, il Grana-padano e molti altri tradizionali simili (siamo il numero uno al mondo in queste produzioni certificate) sono ormai ottenuti con nuove e migliorative tecniche digitalizzate di mungitura, con utilizzo di mungitrici robotizzate, ancora più attente al benessere del singolo animale il quale, recandosi alla mungitura sotto lo stimolo della fame (il robot è munito di una piccola mangiatoia ad hoc) si lascia svuotare tranquillamente e regolarmente la mammella nel rispetto di tutte le fasi fisiologiche di preparazione di quest’organo, talvolta trascurate invece da un mungitore distratto. Per di più, durante la mungitura, questa attrezzatura digitalizzata consente in pochi secondi di rilevare una mole straordinaria di dati sulla vita quotidiana dell’animale, quali le foraggiate giornaliere, il conteggio dei passi, la misurazione delle ruminazioni, il calcolo della fase estrale (la fase esatta del “calore” per l’accoppiamento), i parametri del benessere (fasi di riposo e di moto) e persino alcuni segnali umorali quali i movimenti forzati e il nervosismo dell’animale, in maniera da allertare l’allevatore seduto al computer sullo stato di salute o di dolore, indice legato talvolta a una malattia.
  4. La riduzione del 50% degli antibiotici utilizzati negli animali allevati (già avvenuto in quest’ultimo decennio), in vita o per la cosiddetta “asciutta selettiva” (no antibiotici in mammella sana durante i due mesi di non produzione lattea in attesa del parto) contribuendo segnatamente a ridurre il fenomeno dell’antibiotico resistenza, pericolosa per l’animale e per l’uomo, nonché a preservare la salubrità del nostro cibo evitando il rischio di residui farmacologici nelle derrate prodotte.
  5. La continua ricerca genetica sull’irrobustimento dei soggetti, puntando a una miglior salute dei capi allevati, alla qualità del prodotto finale (latte, carne, uova), e al rispetto di criteri di sana economia zootecnica, nel rispetto del criterio biologico di “maggior salute-miglior qualità produttiva”, a parità di soggetti e col risultato di un maggior risparmio di risorse naturali fornite (acqua e suolo).
  6. Premesso che, come tutte le attività, anche la zootecnia ha comunque un impatto sull’ambiente legato al consumo di risorse e alla produzione di inquinati, in primis i gas serra a effetto climalterante (GHG), secondo calcoli recenti nel 2017 il settore agricolo dell’UE ha generato solo il 10% delle emissioni totali di gas serra, una percentuale di inquinamento inferiore a quello prodotto dall’industria (38%) e dai trasporti (21%).
  7. Siccome quasi la metà delle emissioni agricole, soprattutto metano, ossido di azoto e anidride carbonica, proviene dalla fermentazione enterica dei ruminanti e dalla gestione del letame, la riduzione genetica di cui al precedente punto 5, unita alla miglior gestione delle deiezioni e dei singoli animali allevati, ha ridotto le emissioni di gas a effetto serra tra il 1990 e il 2013 di ben il 27%.
  8. Agendo poi sui mangimi somministrati, l’allevatore ha ridotto sensibilmente le escrezioni di nutrienti (azoto e sostanza organica), diminuendo di conseguenza le emissioni di metano enterico legato ai processi metabolici e ha gestito il rilascio degli effluenti tramite ricovero in vasca o concimaia, stoccaggio e distribuzione del letame, in maniera da tenere sotto controllo la loro catena di utilizzo e distribuzione potendo gestire in tal modo anche l’utilizzo dell’azoto e ridurre gli acquisti di fertilizzante azotato sintetico impiegato in agricoltura.
  9. Agendo su bestiame geneticamente più produttivo e qualitativamente più apprezzabile, utilizzando salute e benessere per aumentare il ciclo di vita e di produzione, con un basso indice di mortalità/malattie e un alto tasso di fertilità, l’allevatore odierno porta alla riduzione delle emissioni di azoto e di metano, sia enterico sia dalle deiezioni, per chilogrammo di latte, di carne o di uova prodotto.
  10. La valorizzazione in proteine della trasformazione ruminale dell’azoto contenuto nel foraggio ingerito, estraendolo dalla cellulosa, per noi indigeribile, e fornendolo a noi con latte e carne. A ciò va sommato il riciclo dei reflui zootecnici nei moderni impianti di biogas e di biometano, grazie al quale la zootecnia contribuisce quindi ad aumentare da un lato la produzione proteica del nostro cibo e dall’altro a produrre nuova energia rinnovabile per le aziende agricole o per altri settori dell’economia.
  11. Diminuendo gradatamente il consumo di acqua in allevamento la zootecnia ha smentito ciò che si scrive da tempo, ossia che servirebbero 15 mila litri di acqua per produrre un chilo di carne. È dimostrato invece che se ne consumano ormai solo circa 790 litri, come riportato in uno studio dedicato a questo tema, poiché dal calcolo globale dell’acqua utilizzata nell’intera filiera va tolta la stragrande maggioranza di acqua derivante dal ciclo naturale, rappresentata anche da quella piovana che, utilizzata per scopi irrigui ad esempio, viene poi restituita all’ambiente.

Conclusione

La sensibilità ambientale ha ormai pervaso tutta la comunità. Per questo non solo la zootecnia in sé fa passi avanti, ma anche tutta la filiera agro-zootecnica-alimentare sta dando un pregevole contributo alla questione socio-ambientale. Da qualche anno a questa parte molti sono gli annunci che grandi aziende private o cooperative, legate alla produzione di alimenti di origine animale, stanno contribuendo alla salvaguardia del pianeta, intervenendo nella modifica tecnologica dei loro processi produttivi come, ad esempio:

  1. Realtà consortili del settore zootecnico (produzione del latte, carne e coltivazione della barbabietola) che si sono associate al fine di gestire i reflui di stalla, l’organico di campo e il digestato da biogas per spargere e interrare subito questa massa reflua nei campi da coltivare con un risparmio consistente di concimi fertilizzanti industriali.
  2. Realtà produttive di latte zootecnico che hanno agito sul riciclo della plastica di bottiglia ancorando il tappo (solitamente disperso) al contenitore, riducendo così il tutto di ben il 30% o sostituendo, quando possibile, questi contenitori con contenitori cartacei.
  3. Riciclando, disinfettando e sterilizzando le acque reflue dei lavaggi di strutture, impianti e cicli di lavorazione, molte aziende del settore (latte e carne o itticoltura) hanno contribuito a evitare sia le dispersioni in superficie che i successivi, ulteriori prelievi nelle falde sotterranee.
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