Banane-sul-tavolo

Editing genomico e sicurezza alimentare: banane resistenti

La continua diffusione di nemici biologici sta mettendo a rischio la sopravvivenza delle banane. I genetisti vegetali sono alla ricerca di una soluzione

L’allarme sull’incombente estinzione delle banane è stato rilanciato insistentemente dai media nell’ultimo decennio. È stato coniato addirittura il neologismo “bananapocalisse”. Quanto dobbiamo essere preoccupati? E cosa stanno facendo i genetisti vegetali per garantire lunga vita a questo frutto amato dai consumatori di tutto il mondo e celebrato da tanti artisti?

Dall’olio su tela di Paul Gauguin alla scultura deperibile di Maurizio Cattelan, dal gonnellino di Joséphine Baker al celebre “banana album” nato dalla collaborazione tra Andy Warhol e i Velvet Underground, questa bacca oblunga è diventata un’icona della nostra cultura. Ma la posta in gioco è molto più che simbolica, perché l’industria della banana vale 8 miliardi di dollari all’anno. E ci sono circa 150 paesi tropicali e sub-tropicali in cui questo frutto rappresenta sia una cash crop che una staple crop. Ovvero una produzione da esportazione che sostiene il reddito dei piccoli coltivatori e anche un alimento base, che si consuma sia cotto che crudo e fornisce carboidrati, vitamine e minerali a milioni di persone.

L’attenzione internazionale si è concentrata, in particolare, sui destini della varietà che troviamo in tutti i negozi – la Cavendish – e sul suo nemico biologico numero uno: il Fusarium oxysporum. Un vecchio ceppo di questo fungo (TR1) ha decimato la varietà Gros Michel in voga fino agli anni ’60 favorendo l’avvento della Cavendish che era resistente. Un altro ceppo di Fusarium detto TR4 ora minaccia quest’ultima, ma stavolta non disponiamo di varietà resistenti commercialmente appetibili pronte a sostituirla. La produzione globale per ora ha retto, ma l’infezione viaggia inesorabilmente, trasportata con il terriccio che resta attaccato a scarpe, ruote, attrezzi. Dall’Asia la malattia è giunta in America Latina e anche in Mozambico, destando preoccupazione per l’intera Africa, poiché questo continente produce un terzo delle banane del mondo. Si stima che nella regione dei grandi laghi, dove si trovano Burundi, Kenya, parte del Congo, Rwanda, Tanzania e Uganda, il consumo annuale pro-capite sia di 220–460 chilogrammi, quindici volte la media globale. In questi paesi le banane forniscono il 30-60% dell’apporto calorico giornaliero.

Il TR4 è un problema globale e attacca la Cavendish, è quindi necessario trovare rapidamente una soluzione. Recentemente abbiamo iniziato a lavorarci con un piccolo finanziamento e siamo ottimisti, avremo i primi risultati alla fine del 2023”, ci dice Leena Tripathi dell’Istituto Internazionale di Agricoltura Tropicale di Nairobi, in Kenya. Il gruppo dell’IITA fa parte della rete no-profit CGIAR e sta testando in serra dei banani in cui è stato disattivato un gene di suscettibilità grazie all’editing genomico. Buone notizie arrivano anche dall’Australia, dove James Dale prima è riuscito a creare delle banane transgeniche resistenti al TR4, trasferendo un gene (RGA2) presente in una varietà selvatica (Musa acuminata malaccensis). Poi il genetista della Queensland University of Technology ha ottenuto lo stesso risultato con l’editing genomico riattivando il gene endogeno corrispondente, che era presente in stato dormiente.

Ma oltre alla regina delle varietà commerciali, esistono oltre un migliaio di varietà che non hanno la produttività e la palatabilità a cui siamo abituati, ma che potremmo iniziare ad apprezzare almeno in parte ampliando le nostre scelte alimentari. I loro frutti sono commercializzati per lo più localmente e impiegati in preparazioni alimentari diverse, dai dessert alla birra, e non si sa quante di queste cultivar siano vulnerabili al TR4. Inoltre, è bene ricordare che non esiste solo il Fusarium: i parassiti e i patogeni che minacciano i banani sono molti tra microrganismi, nematodi e insetti. Se si adotta il punto di vista africano, in cima alla lista delle priorità c’è il batterio Xanthomonas campestris.Nel mio istituto stiamo lavorando su malattie batteriche e virali da molto tempo”, ci spiega Tripathi che recentemente ha pubblicato una rassegna sull’International Journal of Molecular Sciences. Sviluppare banani resistenti con i metodi tradizionali di incrocio è molto difficile, per la scarsa variabilità genetica del germoplasma disponibile, il lungo ciclo riproduttivo, la presenza di genomi multipli (poliploidia) e la sterilità di gran parte delle cultivar che sono propagate per via vegetativa. Invece “il sequenziamento completo e la disponibilità di un buon protocollo di trasformazione genetica rendono il banano un eccellente candidato per l’editing genomico”.

Il risultato di cui Tripathi si dice più fiera sono “le banane resistenti ai batteri ottenute con la tecnica CRISPR”, anche se ci tiene a precisare che si tratta di una prova di principio. “Le nostre varietà non sono ancora pronte per il mercato. Abbiamo fatto buoni progressi ma servirà ancora qualche anno prima di tentare il debutto commerciale”. Tra i geni presi di mira all’IITA contro lo Xanthomonas ci sono “geni della suscettibilità, regolatori negativi delle difese della pianta, trasportatori di nutrienti”. Per identificare i bersagli potenzialmente interessanti si paragonano i profili di espressione delle varietà resistenti e suscettibili esposte all’infezione (trascrittomica comparativa), oppure si consulta la letteratura scientifica su altre specie in cui possono essere presenti meccanismi molecolari simili. Un esempio del primo tipo è stato identificato nell’unica varietà resistente nota (Musa balbisiana), un esempio del secondo tipo è il gene della protezione dalla peronospora isolato nella pianta modello Arabidopsis (MusaDMR6).

Dal punto di vista scientifico esistono due strategie entrambe efficaci: mettere fuori uso un gene di suscettibilità o attivare un gene protettivo. Ma per evitare problemi dal punto di vista regolatorio è preferibile che i prodotti finali siano liberi da DNA estraneo, perché la tendenza internazionale è quella di regolamentare in modo più leggero le piante che non contengono transgeni. “Kenya, Nigeria e Malawi hanno già approvato linee guida sull’editing. Etiopia and Ghana sono in dirittura di arrivo”, afferma Tripathi.

Nuovi spunti per gli esperimenti del futuro potrebbero arrivare dall’analisi genetica di un numero crescente di varietà selvatiche e coltivate. Uno studio recente ha svelato una parte ancora oscura della storia del banano, rivelando tre antenati precedentemente sconosciuti e forse ancora esistenti. I dati suggeriscono che siano originari rispettivamente di Nuova Guinea, Tailandia e dell’area tra Borneo e Filippine.  Molto probabilmente non ci piacerebbe mangiare i loro frutti, perché prima della domesticazione le banane erano povere di polpa e piene di grossi semi, praticamente incommestibili. Ma scovando e studiando i lontani progenitori, gli esperti sperano di trovare un tesoretto di geni utili per mantenere le varietà moderne in salute.

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