Editing genomico e sicurezza alimentare: viti resistenti
I genetisti italiani sono tra i più impegnati a studiare il potenziale delle biotecnologie di precisione per una viticoltura sostenibile e di qualità. L’obiettivo è difendere i vitigni dai nemici biologici e dagli stress climatici senza danneggiarne l’identità genetica
“C’è più spirito in queste bottiglie che in tutti i libri di filosofia del mondo”, scriveva nel 1843 Louis Pasteur pregustando il piacere di brindare con un amico (Charles Chappuis). Il microbiologo francese, di cui si è celebrato da poco il bicentenario della nascita, è stato uno dei padri della scienza del vino, oltre che della teoria dei germi. Chissà cosa scriverebbe oggi, sapendo quanto lavoro stanno facendo i genetisti per preservare lo spirito degli antichi vitigni e proteggerli al tempo stesso dalle insidie degli agenti patogeni.
A dispetto di quanto si legge nel dizionario dei sinonimi e dei contrari, conservazione e innovazione sono destinate ad andare a braccetto nell’agricoltura di qualità, e dunque anche in viticoltura. L’editing potrebbe essere d’aiuto perché consente interventi genetici leggeri e mirati, utili a mantenere intatta l’identità genetica delle varietà e le rispettive caratteristiche organolettiche, mentre se ne potenzia la resistenza alle malattie.
L’Italia è il paese più impegnato nell’editing della vite, con almeno quattro gruppi attivi tra la Fondazione Edmund Mach in Trentino Alto Adige, l’Università di Verona che ha lanciato anche uno spin-off dedicato (EdiVite), il Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia del Crea che fa capo al Ministero dell’agricoltura, il CNR con l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante di Torino. Si lavora per mettere le viti in condizioni di tollerare gli stress climatici, ma soprattutto per proteggerle dai nemici biologici.
Gli agenti patogeni vegetali proprio come quelli umani, evolvono e viaggiano. Per applicare meno pesticidi, nell’ottica della sostenibilità ambientale, dovremo fare affidamento sulle contromisure genetiche. I bersagli su cui agire si possono dividere in due grandi categorie: geni della suscettibilità e geni della resistenza.
“I primi sono i geni della pianta che il patogeno usa per poterla infettare. Si tratta di target adatti per la tecnica CRISPR, perché possono essere silenziati facilmente con un knock-out. Basta eseguire un taglio mirato con le forbici di CRISPR e il gene è disattivato”, ci dice Michele Morgante. Il genetista dell’Università di Udine ha un’esperienza più che ventennale nello sviluppo di viti resistenti grazie agli incroci guidati da marcatori ma intende riprendere a lavorare anche con l’editing.
L’alternativa è inserire geni che conferiscano resistenza, prendendoli in prestito da altre piante, in questo caso dalle viti selvatiche. “Se invece di fare un semplice taglio si usa l’editing per inserire un segmento di DNA si potrebbe ricadere nella categoria della cisgenesi, e questo può rappresentare un ostacolo in più sul piano regolatorio”, aggiunge il genetista. Dal punto di vista scientifico i pro e i contro delle due strategie vanno valutati caso per caso.
Il gene della pianta che viene spento per ridurne la suscettibilità aveva certamente altre funzioni, perché non può essersi evoluto per favorire un patogeno. Dunque, inattivandolo potrebbe verificarsi qualche contraccolpo, ad esempio si potrebbe aprire la strada ad altre malattie. “Per una pianta annuale non è un grosso problema. Ma la vite vive decenni, perciò prima di procedere a piantare una varietà con geni della suscettibilità editati bisognerebbe fare una sperimentazione di lungo periodo”, ragiona Morgante. Agire sulla suscettibilità, comunque, comporta anche un grosso vantaggio: “Si conferisce una protezione durevole, perché non si innesca la rincorsa tra ospite e patogeno a chi muta più velocemente”.
Le malattie su cui finora si sono concentrati gli sforzi dei genetisti sono oidio e peronospora, due funghi che sono arrivati in Europa nel XIX secolo approfittando della vulnerabilità dei nostri vitigni. Il gene della suscettibilità all’oidio è noto da tempo, sin dai pioneristici studi di Francesco Salamini sull’orzo. Più recentemente, lavorando sulla pianta modello Arabidopsis, un gruppo dell’Università di Utrecht ha individuato il gene di suscettibilità alla peronospora e ben presto lo stesso gene è stato riconosciuto in altre specie, dal pomodoro alla vite.
Per quanto riguarda l’altro approccio, quello dei geni di resistenza, la protezione conferita dura fin tanto che i patogeni non evolvono stratagemmi per aggirarla. Questo aspetto può essere gestito in tre modi, spiega Morgante. “Lo stacking consiste nell’inserire più geni di resistenza nella stessa pianta. In alternativa si possono piantare varietà con diversi geni di resistenza alternandole nel tempo o nello spazio. La terza soluzione è piantare varietà resistenti insieme a varietà non resistenti”. Stavolta la questione potrebbe essere più spinosa per le specie annuali, dove una nuova varietà di successo può essere adottata su larga scala in breve tempo. “Ma per la vite è impensabile che dall’oggi al domani vengano sostituiti tutti i vigneti tradizionali con nuove varietà resistenti”, sostiene Morgante. Quindi la convivenza tra varietà resistenti e non resistenti ci sarà e questo permetterà di contrastare l’insorgenza di nuovi ceppi di patogeni in grado di farsi strada.
“I gruppi italiani lavorano su vitigni diversi, a seconda della loro localizzazione territoriale. Ad esempio, Chardonnay in Trentino e Glera nel Veneto per il prosecco”, ci dice Mario Pezzotti che dirige il Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Mach. I nomi dei geni di suscettibilità sono DMR6 per la peronospora e MLO per l’oidio. “Il problema da risolvere è il passaggio chiave della rigenerazione, perché la mutazione viene indotta in una cellula pluripotente detta protoplasto e da quella si deve rigenerare l’intera pianta”, spiega il genetista che prima di arrivare a San Michele all’Adige ha lavorato a lungo all’Università di Verona.
Per la resistenza invece i geni provengono da specie selvatiche sessualmente compatibili, le stesse usate negli incroci per ottenere vitigni resistenti (che però in Italia perdono il marchio Doc perché non sono considerati della specie Vitis vinifera). “Finora sono stati isolati tre geni di resistenza, uno per oidio e due per peronospora, che non sono presenti nelle viti coltivate. Ma ne esistono altri potenzialmente utili contro questi due parassiti e si lavora per isolarli”, aggiunge Pezzotti. La strategia è basata su genomica e trascrittomica comparative, ovvero sul confronto tra i genomi di vite sequenziati da capo a fondo (da telomero a telomero) e sul confronto tra gli insiemi dei loro trascritti.
E le altre malattie? “C’è qualche gene identificato, ma ancora non sufficientemente caratterizzato, per la resistenza a patogeni minori come il fungo del marciume nero, che attacca il grappolo. Invece siamo molto indietro sulla flavescenza dorata, malattia molto seria causata da un fitoplasma, un piccolo batterio privo di parete che si annida nei vasi, e per il quale non sono noti geni di resistenza o di suscettibilità”, spiega Pezzotti. Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare.