Eliche di DNA e cromosomi

Progresso genetico: l’aumento di produttività è un gioco di squadra

È ancora possibile aumentare le rese delle piante coltivate attraverso la modificazione genetica? E in che misura? Ne abbiamo parlato con Luigi Cattivelli, direttore del Centro di ricerca genomica e bioinformatica del CREA

Ci sono campioni che possono fare la differenza. Ma per vincere partite e tornei deve funzionare innanzitutto l’intesa tra i giocatori. Accade lo stesso per il progresso genetico, ovvero per l’aumento di produttività delle piante coltivate. Dare la caccia al singolo gene chiave, sperando che possa fare il miracolo, non basta. Bisogna puntare sull’armonia delle combinazioni genetiche e per trovarla servono approcci che sposino le tecnologie più avanzate con le conoscenze agronomiche. Insomma, maneggiare DNA e provette va bene, ma è altrettanto importante sapere cosa funziona concretamente quando le piante arrivano in campo.

È questo il messaggio che un gruppo di autorevoli ricercatori – genetisti quantitativi, breeder, biologi evoluzionisti e botanici – ha affidato alle pagine di Nature in un commento provocatoriamente intitolato “La modificazione genetica può migliorare le rese, ma basta con le esagerazioni”. Nomi noti agli appassionati di genetica vegetale (come Pamela Ronald dell’Università della California a Davis) e meno noti (perché impegnati in paesi come Nigeria e Messico) propongono alcuni principi di base da seguire nella ricerca, auspicando maggiore collaborazione tra competenze diverse. Per capire come combinare al meglio saperi che non sono alternativi ma complementari, al fine di tenere le rese al passo con la domanda globale, abbiamo interpellato Luigi Cattivelli, che di formazione è agronomo ma dirige il Centro di ricerca genomica e bioinformatica del CREA.

Nel suo libro, che si intitola “Pane nostro” (il Mulino, 2023), c’è una fotografia che mostra fianco a fianco le varietà di frumento che si sono succedute dal 1900 al 1990, dalla Timilia alla Ofanto, passando per Cappelli, Creso e molte altre. Come possiamo quantificare il valore del miglioramento genetico?

Se prendiamo delle varietà di epoche diverse, le seminiamo una a fianco all’altra, le concimiamo allo stesso modo e andiamo a vedere le differenze nella capacità produttiva, quello che osserviamo è l’effetto della genetica, non della tecnologia colturale né delle condizioni ambientali. Ebbene, il progresso genetico medio per il frumento è stimabile in circa 20 chili per ettaro all’anno nel corso del Novecento. Questi calcoli sono stati fatti per le principali specie coltivate e le stime variano da 10 fino a 50-60 kg/ha all’anno.

Il trend prosegue in modo vigoroso?

In passato ci sono stati dei balzi in avanti difficilmente replicabili. Nel caso del frumento, per esempio, l’introduzione di mutazioni per la bassa taglia durante la Rivoluzione verde ha avuto un ruolo cruciale. Ma facendo un calcolo per gli ultimi 20 anni, si trova un progresso genetico tendenzialmente basso. Secondo diversi studi eseguiti negli Usa, la crescita per il frumento si è attestata intorno all’1% annuo (5-10 chili per ettaro per anno), che è più o meno quello che viene eroso dal cambiamento climatico. Per l’aumento di un grado di temperatura si stima una perdita di produzione tra il 5-10% su scala globale. Quindi procedere con il ritmo attuale di progresso genetico non è sufficiente.

Quali innovazioni dobbiamo ringraziare per questo piccolo ma prezioso 1%?

È il frutto di tutti gli approcci che vengono usati, dagli incroci convenzionali alla selezione assistita da marcatori, dalla selezione genomica agli OGM, laddove sono consentiti. La resistenza alla piralide nel mais Bt ha prodotto un importante balzo in avanti, inferiore a quello ottenuto con i geni di bassa taglia, ma comunque molto consistente. Non sarà un aumento di produttività, ma è comunque una mancata perdita.

I geni che da soli possono fare la differenza sono già stati scoperti e sfruttati, oppure possiamo sperare in qualche altra svolta?

Un po’ di spazio c’è ancora. Le varianti alleliche naturali rilevanti per la resa sono già state selezionate, però possiamo crearne di nuove. Migliorare l’efficienza della fotosintesi con la transgenesi o l’editing genomico, in particolare, sarebbe una svolta. Aumentando la velocità con cui la pianta si adatta ai cambiamenti di luce è stato possibile ottenere un aumento di biomassa del 20-30% nelle specie modello tabacco e arabidopsis. Il Crea è coinvolto in uno dei tre progetti europei che mirano a riprodurre questo meccanismo nelle specie coltivate. Si chiama Best-Crop ed è coordinato da Paolo Pesaresi dell’Università di Milano. Se ottenessimo anche solo una frazione del progresso genetico teoricamente raggiungibile, magari il 5%, sarebbe un risultato straordinario considerato che tutta la ricerca mondiale porta a un progresso dell’1% all’anno.

Molti dei risultati eccezionali ottenuti con il miglioramento genetico in laboratorio e in serra deludono le aspettative nel mondo reale e c’è proprio questa constatazione dietro al commento pubblicato su Nature. Perché accade?

Se si tratta di una pianta in cui è stato trasferito o editato un gene per conferire la resistenza a una malattia o a un parassita, l’approccio “single gene” è efficace. Lo stesso vale per il miglioramento nutrizionale, come nel caso del pomodoro arricchito con vitamina D. Il quadro cambia per i tratti complessi come la tolleranza alla siccità o la produttività. In un vaso c’è una quantità di terra limitata, le condizioni esterne (luce, temperatura) sono stabili e la pianta è da sola. Una pianta in serra, dunque, è totalmente diversa da una pianta che vive in campo e di fatto in una comunità di piante dove la non competitività tra piante vicine è un carattere fondamentale.

Eseguire prove pluriennali e realistiche in campo, in luoghi diversi e con densità di tipo commerciale, sono alcuni dei criteri ribaditi su Nature per evitare sensazionalismo e delusioni. È d’accordo con la visione agronomica proposta?

Certo che sì. Nel mio istituto a Fiorenzuola d’Arda c’è chi fa breeding, biologia molecolare, sequenziamento, bioinformatica, microbiologia del suolo. Abbiamo 20 ettari di prove parcellari, con sperimentazioni replicate per più anni e in più località. Ma molti dei lavori che generano piante “resistenti” a siccità spesso si limitano a prove in camere di crescita o serre. A un agricoltore interessa una varietà, non la funzione di un gene. Per ottenere una varietà elite ci sono decine di migliaia di geni da mettere insieme. Serve il giusto background genetico oltre al singolo gene. Un fenomeno in mezzo a una squadra di giocatori modesti non può vincere il campionato. La selezione genomica serve a questo, a migliorare la combinazione dei geni.

Come funziona la selezione genomica e che contributo può dare?

Come approccio è abbastanza nuovo ma è già apprezzato in campo vegetale, e viene usato da almeno due decenni con successo per i bovini. Serve a identificare, su base statistica, le combinazioni più performanti senza preoccuparsi di cosa facciano i singoli geni per il tratto di interesse. Non c’è bisogno di avere conoscenze pregresse, a differenza dell’editing genomico in cui occorre sapere quale sequenza correggere sul DNA e come. La selezione genomica non mira a bersagli precisi, perciò si dice che è “untargeted”, diversamente dalla selezione assistita da marcatori che sono disegnati su specifici geni ed usati per incorporare le varianti geniche migliori. A seconda dei casi un approccio può essere più utile di un altro, è importante avere più opzioni tra cui scegliere.

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