Regole europee sulle nuove biotecnologie, i punti da chiarire
Lo scorso luglio la Commissione europea ha avanzato una proposta per una nuova normativa più favorevole allo sviluppo e all’utilizzo in campo delle Tecniche di Evoluzione Assistita (TEA). Ma cosa prevede esattamente il testo in discussione a Bruxelles?
La comunità scientifica ha salutato con grande favore la proposta di parziale deregolamentazione delle nuove biotecnologie avanzata dalla Commissione europea lo scorso luglio. Purtroppo, l’iter legislativo non potrà compiere significativi passi in avanti prima della prossima legislatura, che si aprirà con le elezioni europee del giugno 2024. Ma questo tempo non andrà sprecato se servirà a sciogliere i nodi del testo che meritano un supplemento di riflessione e a mettere a punto qualche emendamento chiarificatore. Il diavolo è nei dettagli: dalle soglie proposte per delimitare gli interventi ammissibili sul genoma alle incognite relative alla coesistenza con il biologico, senza dimenticare lo stigma nei confronti degli erbicidi. Per passare in rassegna le questioni ancora irrisolte abbiamo chiesto aiuto a Roberto Defez, biotecnologo del CNR di Napoli.
L’idea cardine è che se la modificazione genetica è precisa e soft, il risultato assomiglia più a una pianta convenzionale che a un organismo transgenico. Ma quanto deve essere soft l’intervento per evitare che le nuove biotecnologie (TEA, ovvero Tecniche di Evoluzione Assistita, come sono chiamate in Italia) finiscano nel buco nero della vecchia direttiva sugli OGM?
La proposta della Commissione prevede che si possano introdurre geni originari di varietà della stessa specie o di specie molto vicine evolutivamente (cisgenesi). Per quanto riguarda la correzione del DNA tramite editing, le modifiche devono riguardare al massimo 20 lettere, ossia 20 nucleotidi. Fino a questo limite le nuove piante verrebbero considerate indistinguibili da piante tradizionali, che normalmente vanno incontro a variazioni. Sono proprio queste mutazioni che creano la biodiversità. Quindi cambiare al massimo 20 lettere in un genoma che ne contiene decine di miliardi è considerato un aumento della biodiversità. Il concetto di variazione implica che ci sia una sequenza standard, in questo caso si useranno come riferimento le sequenze tradizionali. Mi spiego: lo standard non sarà, ad esempio, solo il riso Arborio, ma contemporaneamente il riso Vialone, il Baldo, il Carnaroli, il Venere e così via. Tutti quelli che vengono usati correntemente.
Nel policymaking non è raro ricorrere a soglie simboliche, pensiamo ad esempio al limite dei 14 giorni adottato da molti paesi per gli studi sugli embrioni umani. L’importante è che la soglia scelta non sia arbitraria e possa essere riesaminata alla luce delle conoscenze più aggiornate. Hervé Vanderschuren e colleghi hanno scritto su Nature Biotechnology che il tetto delle venti lettere è stato ricavato da uno studio su una singola specie eseguito con tecniche superate. Cosa ne pensa?
Le opinioni su questo punto sono contrastanti. La critica riguarda il fatto che si è generalizzato un fenomeno di variabilità spontanea analizzato in una singola specie, estendendolo a tutte le piante. Altre fonti riconducono la soglia a uno studio commissionato dalla Commissione a un qualificato gruppo di esperti. Secondo gli autori, sotto i 20 nucleotidi non sarebbe possibile capire se le “nuove” lettere derivano dalla stessa pianta o da un organismo diverso. Poiché la parziale deregolamentazione non si applica alla transgenesi (ovvero al trasferimento di geni tra specie evolutivamente lontane), il tetto vale come garanzia che non è stato introdotto DNA proveniente da un animale o da un batterio.
A dispetto dell’apparente precisione, i numeri vanno comunque interpretati. Dobbiamo sottintendere che le venti lettere siano consecutive? Perché è importante chiarirlo nell’allegato del regolamento?
Se lo scopo è escludere la transgenesi, i 20 nucleotidi dovrebbero essere consecutivi, altrimenti si finirebbe per contare gli errori casuali che avvengono spontaneamente nella riproduzione delle cellule e che nulla hanno a che vedere con l’intervento genetico. Poi si devono considerare anche le mutazioni involontarie (off-target) che capitano nelle procedure di editing, ma che in molte specie vegetali possono essere rimosse incrociando la pianta editata con piante non editate.
La proposta della Commissione sembra voler stabilire anche un numero massimo di interventi oltre che l’estensione massima del singolo intervento, forse perché alcuni tratti non dipendono da un singolo gene ma da una famiglia di geni. Come legge questa parte del testo?
La Commissione parla di 20 modificazioni ma non è chiaro come questa regola vada applicata nelle piante che non hanno due copie di ogni cromosoma come la specie umana. Il grano duro ne ha 4, il tenero 6 e la fragola 8. Se il numero totale delle modificazioni dovesse restare 20, nella fragola se ne potrebbero generare solo 2 per cromosoma. Soprattutto non si potrebbe realizzare uno dei sogni dei ricercatori, ossia il pane senza glutine, perché si dovrebbero variare troppi geni.
In definitiva potrebbero essere ammesse fino a 20 modificazioni di 20 lettere oppure si tratta di una interpretazione forzata del testo?
Temo che siano 20 in tutto, non venti per venti.
Nell’allegato si prendono in considerazione altri tipi di interventi oltre a inserzione/sostituzione di un numero limitato di lettere. Le delezioni, in particolare, non hanno un limite di estensione, perché?
Rimuovere segmenti di DNA è il contrario della transgenesi, dove si aggiungono centinaia o migliaia di lettere. Poiché lo scopo è rassicurare i consumatori diffidenti rispetto agli OGM, si potrà eliminare a volontà.
Un’altra critica avanzata su Nature Biotechnology riguarda la decisione di escludere eventuali piante TEA tolleranti agli erbicidi dai benefici di legge riservati alle nuove biotecnologie. Politicamente ha senso premiare le applicazioni che offrono chiari vantaggi per la sostenibilità ambientale e lasciare fuori quelle più controverse. Dal punto di vista scientifico è una scelta difendibile?
La scelta è indifendibile scientificamente, perché le piante possono mutare spontaneamente diventando resistenti agli erbicidi. Anche questo contribuisce alla biodiversità. Quindi questa norma discrimina piante uguali ad altre che sono considerate convenzionali e vengono comunemente accettate. Ma lottare contro le ideologie spesso è una battaglia persa. Parafrasando una citazione attribuita a Einstein si potrebbe dire che è più facile rompere un atomo che il pregiudizio contro gli erbicidi.
Un’altra misura poco logica, anche se politicamente comprensibile, riguarda il fatto che le piante TEA sono equiparate alle piante convenzionali se a coltivarle è un produttore convenzionale, ma vengono escluse dall’agricoltura organica proprio come gli OGM classici. Che problemi può creare questa ambiguità?
Potenzialmente questo è il problema più grave, se non si chiarisse il punto faremmo prima a rinunciare all’intera normativa e i ricercatori più competitivi farebbero bene a lasciare l’Europa. Rischiamo di ripiombare nel labirinto delle misure di coesistenza tra piante TEA e non, inseguendo il polline che potrebbe varcare il confine tra campi coltivati diversamente e dando la caccia ai semi accidentalmente presenti nei lotti organici o convenzionali. Se le piante ottenute con le nuove biotecnologie sono indistinguibili dalle piante normali, non possono esserci misure di coesistenza. È un vero peccato che le organizzazioni del biologico non vogliano usare le migliori tecnologie disponibili, quelle che potrebbero contribuire alla sostenibilità dell’agricoltura organica, evitando di inquinare i loro suoli con farine animali e fungicidi. Già oggi molte produzioni non-biologiche emettono meno gas serra delle analoghe biologiche e questo dovrebbe essere il parametro guida nella scelta delle future tecnologie da utilizzare.