Una foto del genoma di una cellula contenuto all'interno del suo nucleo

Ultime frontiere della genomica in agricoltura: l’apomissia

Ingegnerizzando in specie fondamentali per l’alimentazione umana la capacità di produrre semi in maniera asessuale diventa possibile riseminare i raccolti. Ora che questo traguardo è stato raggiunto nel riso abbiamo chiesto a Emidio Albertini dell’Università di Perugia di illustrarci sfide e prospettive

Per molto tempo è stata soltanto una curiosità botanica, capace di interessare pochi studiosi appassionati di tassonomia ed evoluzione. Oggi è diventata il Santo Graal della genetica agraria. Parliamo dell’apomissia, la riproduzione asessuale per seme, ovvero la capacità di produrre semi vitali del tutto identici alla pianta madre, affrancandosi dalla necessità della fecondazione.

La ricerca ha avuto un andamento a onde, ora siamo sulla cresta”, ci dice Emidio Albertini, esperto di apomissia dell’Università di Perugia e organizzatore di un recente workshop sul tema nell’ambito della Plant & Animal Genome Conference (San Diego, 13 gennaio 2023). L’umore tra gli addetti ai lavori è alto e il traguardo non è mai apparso così vicino, soprattutto grazie ai brillanti risultati annunciati su Nature Communications il 27 dicembre 2022 da un gruppo franco-statunitense.

Con l’aiuto della tecnica CRISPR, Venkatesan Sundaresan dell’Università della California a Davis e i suoi colleghi hanno raggiunto un’efficienza altissima nell’ingegnerizzazione dell’apomissia in una specie fondamentale per l’alimentazione umana: il riso. Come ci sono riusciti e quali ostacoli restano da superare? Quali saranno le prossime specie? Le domande cha abbiamo fatto al genetista umbro sono molte, ma è bene partire dalla più di importante: quanto è grossa la posta in gioco? 

L’apomissia è un carattere presente in circa 400 specie selvatiche e la sua evoluzione è ancora dibattuta. Non è chiaro cosa sia venuto prima: la riproduzione per seme con o senza sesso?”, premette Albertini. Riprodurre questo fenomeno naturale nelle piante più importanti dal punto di vista agronomico, comunque, avrebbe conseguenze potenzialmente rivoluzionarie. “Quando ci saremo riusciti per i breeder sarà più facile fissare le combinazioni genetiche superiori, adattandole ai diversi contesti. Inoltre i coltivatori potranno riseminare ogni anno parte del raccolto, ottenendo piante uniformi per qualità e resa, generazione dopo generazione”. I benefici economici potrebbero aggirarsi sui miliardi di euro e i primi a trarne vantaggio potrebbero essere i piccoli agricoltori dei paesi in via di sviluppo che oggi non possono permettersi di acquistare le sementi ogni anno.

Non tutti sanno che molte varietà sono commercializzate sotto forma di ibridi, che danno il meglio nella prima generazione ma poi producono una progenie altamente variabile a causa del rimescolamento dei geni che avviene nella riproduzione sessuale”, spiega Albertini. L’apomissia serve a generare piante che sono cloni della pianta madre, perciò risolverebbe magicamente il problema, abbassando i costi di produzione del seme e consentendo di riseminare il raccolto.

Com’è nata questa idea? La storia degli studi sull’apomissia inizia nel lontano 1829 ai Kew Gardens di Londra, lo stesso luogo in cui è ambientato il techno-thriller “Apomixis” di Peter Pringle (il titolo originale è “Day of the Dandelion”, perché il tarassaco è una pianta apomittica). Il primo curatore dei prestigiosi giardini botanici inglesi si accorse che tre esemplari femminili di un arbusto australiano simile all’agrifoglio (Alchornea ilicifolia) producevano seme in assenza di polline.

Nel 1869 anche Mendel si è imbattuto nel fenomeno senza saperlo, facendo incroci con la specie Hieracium pilosella, ma la spiegazione dei risultati ottenuti in questi esperimenti ha richiesto altri 40 anni”, racconta Albertini. In seguito il carattere è stato trovato in molte altre piante, sia mono che dicotiledoni, e un manipolo di genetisti ha cercato di trasferirlo nelle specie di interesse attraverso gli incroci, ma questa strada si è rivelata un vicolo cieco. Ben più fruttuoso, in confronto, è stato il lavoro di mappatura delle vie molecolari dell’apomissia, alla ricerca dei pulsanti genetici per passare da un tipo di riproduzione all’altro. Una volta trovati i geni chiave sono iniziati gli esperimenti per trasferirli, con l’ingegneria genetica prima e l’editing genomico poi. 

Emidio Albertini lavora, insieme a Lucia Colombo dell’Università di Milano, con il gene Apostart. “L’abbiamo studiato nella pianta modello Arabidopsis e in futuro pensiamo di provare con il riso”, ci dice. La company olandese Keygene si concentra sul gene Par. Il fiore all’occhiello della Francia, invece, è il sistema MiMe, che è composto da tre geni (la sigla indica che la mitosi prende il posto della meiosi, dunque la cellula uovo mantiene l’intero corredo cromosomico anziché dimezzarlo come avviene solitamente nelle cellule sessuali). Questi gruppi e altri ancora partecipano a due grandi progetti finanziati dall’Unione europea, denominati rispettivamente MAD e Polyploid e incentrati proprio sulle piante apomittiche.

Un balzo in avanti decisivo è stato compiuto dal gruppo statunitense guidato da Sundaresan nel 2019, con la descrizione su Nature dello sviluppo di linee di riso apomittiche per il 40% circa. La ricetta prevedeva due step: prima il riso è stato ingegnerizzato con un gene che consente agli embrioni di svilupparsi senza fecondazione (Baby Boom1), poi la piattaforma di editing CRISPR è servita a introdurre il sistema MiMe eliminando la meiosi. Il bello è che l’effetto è stato mantenuto per almeno otto generazioni, dunque il DNA continua a esprimersi correttamente anche senza il contributo paterno. L’ultima novità è che la percentuale di successo dell’apomissia è stata alzata al 95% sincronizzando le due azioni in un’unica mossa. In pratica CRISPR ha permesso di trasferire simultaneamente nello stesso pacchetto i quattro geni (BabyBoom più i tre di MiMe).

Il traguardo è vicino ma non ancora pienamente raggiunto, precisa Albertini: “Prima di pensare alla commercializzazione resta da risolvere il problema del grain-filling”. In effetti il riso apomittico descritto su Nature Communications, quando viene coltivato in serra, tende a produrre un certo numero di semi “sgonfi”, in cui non si avvia correttamente la formazione dell’endosperma. Bisognerà capire se la colpa è della linea ibrida di partenza o della bassa penetranza del pacchetto di geni.

Intanto l’Università di Davis ha avviato le prime sperimentazioni in campo con il riso apomittico e i ricercatori stanno mettendo alla prova un sistema simile su altre due specie. “Sundaresan mi ha detto che hanno scelto sorgo e vigna, due specie per le quali è complesso produrre ibridi. I semi della vigna assomigliano a fagioli, si tratta di una pianta che cresce anche sul Lago Trasimeno ma è importante soprattutto per i paesi in via di sviluppo”, spiega il genetista italiano, ricordando che il progetto è finanziato dalla Fondazione Gates.

La mia ultima domanda riguarda i tempi di attesa per il debutto sul mercato: “Noi che abbiamo vissuto la controversia degli OGM e poi abbiamo visto nascere CRISPR, faremo in tempo a mangiarci un risotto apomittico?”. Albertini è cautamente ottimista: “Prima dell’ultimo exploit avrei detto di no, adesso però inizio a crederci. Forse dovremo andare a mangiarlo negli Stati Uniti, che hanno tecnologie avanzate, fondi generosi e norme favorevoli”.

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